Introduzione
Nel corso del XVIII e XIX secolo l’Occidente scoprì per la prima volta i grandi testi della spiritualità indiana – i Veda, le Upanishad, la Bhagavad Gita e altri scritti fondamentali – grazie alle prime traduzioni in lingue europee. Fino ad allora, questi testi sacri erano rimasti quasi del tutto ignoti fuori dall’India. I primi contatti avvennero in un contesto di esplorazioni coloniali, interesse erudito e dialogo interreligioso. Questa scoperta fu graduale e spesso mediata da traduzioni indirette (ad esempio via persiano o latino) e avvenne in un clima di grande curiosità intellettuale, ma anche di incomprensioni e pregiudizi. Esamineremo di seguito quando e come furono realizzate queste prime traduzioni, chi furono i pionieri e quali motivazioni li guidarono – fossero esse religiose, accademiche o coloniali – il contesto storico in cui operarono, l’impatto di queste traduzioni sulla diffusione del pensiero indiano in Occidente, e infine le controversie e gli eventuali errori d’interpretazione delle prime versioni occidentali.
I Veda: tentativi iniziali e prime traduzioni
I Veda, le più antiche scritture dell’India, erano inizialmente noti in Europa solo per fama. Già nel Settecento circolavano manoscritti e racconti, ma le prime “traduzioni” furono spesso problematiche. Un caso clamoroso è quello dell’Ezourvedam, apparso in Francia a fine Settecento: presentato come un’antica scrittura vedica, era in realtà un falso compilato da missionari gesuiti con l’intento di enfatizzare elementi affini al cristianesimo
en.wikipedia.org. Voltaire ricevette il manoscritto nel 1760 e, credendolo autentico, lo lodò come testimonianza della religione più antica e pura; esso fu pubblicato nel 1778
en.wikipedia.org. Solo in seguito si scoprì che l’Ezourvedam non derivava affatto dal sanscrito, ma era un testo redatto in francese dagli stessi gesuiti, concepito per essere tradotto in sanscrito a scopi missionari
en.wikipedia.org. Questa mistificazione anticipa le difficoltà e i fraintendimenti delle prime fasi: l’Occidente anelava ai Veda, ma disponeva di materiali inaffidabili.
Per avere traduzioni genuine dei Veda in lingue occidentali si dovette attendere l’Ottocento. Pionieri britannici in India, spinti da interesse orientalistico e bisogni amministrativi coloniali, iniziarono a studiare il sanscrito. Figure come Sir William Jones fondarono nel 1784 a Calcutta l’Asiatic Society, incoraggiando lo studio delle scritture hindu
vedantany.org. Tuttavia, tradurre integralmente i Veda – in particolare il Rigveda – fu impresa ardua che richiese decenni. Un importante passo fu l’opera di Horace Hayman Wilson, sanscritista inglese: fu il primo a tradurre il Rigveda per intero in inglese
en.wikipedia.org. Wilson pubblicò la sua traduzione del Rigveda in più volumi a partire dal 1850, coronando un lavoro iniziato già negli anni precedenti
en.wikipedia.org. Parallelamente, in questo stesso periodo, altri studiosi preparavano traduzioni di parti dei Veda. Ad esempio, Henry Thomas Colebrooke tradusse e analizzò un importante inno vedico, l’Aitareya Upanishad, già nel 1805
en.wikipedia.org– un testo vedico in forma di Upanishad, di cui parleremo oltre. Nonostante questi sforzi iniziali, fu solo alla fine dell’Ottocento che l’Occidente ottenne versioni complete e accessibili dei quattro Veda: negli anni 1879-1910 Max Müller pubblicò nelle Sacred Books of the East traduzioni inglesi delle Saṃhitā vediche, e poco dopo anche Ralph T. H. Griffith offrì versioni in inglese dei quattro Veda
en.wikipedia.org. Queste imprese resero finalmente disponibile al pubblico europeo il corpus vedico, anche se in forma spesso accompagnata da commenti accademici per contestualizzarlo.
Le Upanishad: dalla Persia all’Europa
Paradossalmente, furono le Upanishad – parti filosofiche dei Veda – a far conoscere per prime la sapienza vedica fuori dall’India
en.wikisource.org. Nel 1657 il principe moghul Dārā Shikōh, figlio dell’imperatore Shāh Jahān, fece tradurre dai pandit hindu una cinquantina di Upanishad dal sanscrito al persiano
en.wikisource.org. Animato da intenti ecumenici, Dārā Shikōh cercava punti di incontro tra induismo e islam, tanto da intitolare la sua raccolta persiana Sirr-e-Akbar (“Il grande segreto”) e presentarla come una rivelazione compatibile con il sufismo. Questa versione persiana rimase a lungo nell’ombra, finché copie del manoscritto non giunsero in Europa nel XVIII secolo
Nel 1775 il testo cadde nelle mani di Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron, un orientalista francese celebre per aver tradotto lo Zend Avesta zoroastriano
en.wikisource.org. Anquetil-Duperron ottenne in India due manoscritti persiani delle Upanishad e li portò in Francia
en.wikisource.org. Ne realizzò una traduzione prima in francese (rimasta inedita) e poi in latino
en.wikisource.org. Quest’ultima fu pubblicata a Strasburgo in due volumi nel 1801-1802 con il titolo Oupnek’hat (dal persiano Upanakhat, che rende Upanishad)
en.wikisource.org. Si trattava della prima traduzione europea delle Upanishad e per molti versi del primo vero ingresso del pensiero vedico nell’erudizione occidentale
en.wikipedia.org. L’opera, dal titolo completo lungo e altisonante, presentava le Upanishad come “il segreto da custodire” e venne apprezzata da alcuni studiosi, pur essendo redatta in uno stile piuttosto oscuro e letterale
en.wikisource.org. Infatti Anquetil tradusse letteralmente dal persiano, mantenendo termini sanscriti e costruzioni persiane, al punto che la prosa risultava spesso “inintellegibile” senza un grande sforzo interpretativo
en.wikisource.org. Fortunatamente, un filosofo tedesco dall’occhio attento, Arthur Schopenhauer, riuscì a penetrarne il significato e ne colse il valore profondo
en.wikisource.org. Schopenhauer, che lesse l’Oupnek’hat avidamente, ne rimase folgorato: definì le Upanishad “il prodotto della più alta saggezza umana”
en.wikipedia.orge dichiarò: “Non c’è studio al mondo così benefico ed elevante quanto quello delle Upanishad. È stata la consolazione della mia vita, e lo sarà della mia morte”
en.wikipedia.org. Grazie a Schopenhauer (che nel 1819 e poi nel 1851 citò e lodò le Upanishad nelle sue opere
en.wikipedia.org), l’intellighenzia europea si accorse delle “vastissime ricchezze di pensiero” sepolte in quei testi
In seguito comparvero traduzioni più accessibili e dirette delle Upanishad. Già negli anni 1816-1817, in India, il riformatore hindu Raja Rammohun Roy tradusse in inglese alcune Upanishad principali (tra cui la Kena e la Īśa) sia per diffonderne il monoteismo implicito sia per argomentare contro l’idolatria
en.wikisource.org. Rammohun Roy, guidato da intenti religiosi e riformatori, pubblicò a Calcutta queste traduzioni pionieristiche per mostrare che il cuore del Vedānta coincide con verità universali e con un Dio unico – messaggio utile alla sua causa di rinnovamento dell’induismo
en.wikisource.org. In Europa, la prima traduzione diretta dal sanscrito fu tedesca: nel 1832 apparve la prima versione in tedesco di alcune Upanishad
en.wikipedia.org. Negli anni 1830 anche in Francia e Inghilterra iniziò un lavoro di traduzione e studio: ad esempio il sanscritista Franz Bopp pubblicò analisi sui testi vedici e in Inghilterra lo stesso Colebrooke tradusse brani upanishadici nelle sue Miscellaneous Essays
en.wikisource.org. Una tappa fondamentale fu però l’opera di Friedrich Max Müller, che pubblicò edizioni critiche e traduzioni in inglese delle Upanishad principali nel 1879 e 1884, all’interno della prestigiosa collana Sacred Books of the East
en.wikipedia.org. Müller fornì per la prima volta un trattamento sistematico di 10-12 Upanishad, creando un riferimento autorevole per il pubblico anglofono
en.wikipedia.org. Da quel momento, le Upanishad furono tradotte ripetutamente in varie lingue occidentali, ma quelle prime versioni – dal latino di Duperron all’inglese di Müller – segnarono l’avvio della diffusione del loro messaggio spirituale in Occidente.
La Bhagavad Gita: il “Vangelo indiano” tradotto per la prima volta
Tra tutte le scritture indiane, la Bhagavad Gita fu la prima ad essere tradotta direttamente dal sanscrito in una lingua europea. Questo avvenne nel 1785, quando Charles Wilkins – un impiegato della Compagnia Inglese delle Indie Orientali appassionato di studi orientali – pubblicò a Londra Bhagvat-Geetā, or Dialogues of Kreeshna and Arjoon
beezone.com. Si trattò di un evento epocale: per la prima volta un testo hindu veniva reso accessibile all’Europa direttamente dalla lingua originale, senza la mediazione di arabo o persiano
beezone.com. Il governatore del Bengala Warren Hastings, che aveva incoraggiato Wilkins, ne fu il patrono e contribuì con un’introduzione entusiasta
beezone.com. Hastings definì la Gita“una composizione di grande originalità, sublimità di concezione, di ragionamento e di linguaggio quasi senza eguali”, aggiungendo che offriva “una teologia che corrisponde accuratamente a quella della dispensazione cristiana, illustrandone potentemente i principi fondamentali”
vedantany.org. In altre parole, l’autorità coloniale vedeva nella Bhagavad Gita un testo degno di paragone con la Bibbia, quasi un “Vangelo indiano”, e ne sottolineava la compatibilità con i valori cristiani
vedantany.org. L’intento di Hastings era sia di mostrare rispetto verso la cultura dei sudditi indiani, sia forse di suggerire un’armonia provvidenziale tra Oriente e Occidente.
La traduzione di Wilkins, frutto di anni di studio del sanscrito con i pandit a Benares, fu accolta in Europa con curiosità e meraviglia
beezone.com. Nel 1787 un abate francese, J.-P. Parraud, la tradusse in francese a Parigi
rarebooksocietyofindia.org, e pochi anni dopo – nel 1802 – ne apparve anche una versione in tedesco
rarebooksocietyofindia.org. Così, nel giro di meno di vent’anni la Bhagavad Gita era disponibile nelle principali lingue colte d’Europa. Questo interesse rapido testimonia quanto l’opera affascinasse gli europei, presentando loro un insegnamento spirituale e filosofico profondamente diverso da quelli biblici e classici, eppure ricco di concetti universali. La Gita, dialogo mistico-filosofico tra il principe Arjuna e il dio Krishna sul campo di battaglia, fu dapprima letta come una curiosità esotica. I recensori sul finire del Settecento sottolineavano più la stranezza del contesto e dei costumi descritti che non le idee morali o metafisiche esposte
beezone.com. Ciononostante, l’opera iniziò a circolare negli ambienti intellettuali: figure come il poeta romantico William Blake ne furono colpite – Blake nel 1809 dipinse The Brahmins, raffigurando proprio Wilkins al lavoro con studiosi indiani sul testo, a celebrare quest’incontro culturale
Nei decenni successivi, la traduzione di Wilkins divenne rara, ma l’interesse per la Gita rifiorì a metà Ottocento. Nel 1846 un’edizione poliglotta (sanscrito, latino, inglese) fu pubblicata in India per scopi missionari, segno che anche i predicatori cristiani ritenevano utile conoscere e far conoscere questo testo
beezone.com. Nel frattempo in Europa comparvero nuove traduzioni: ad esempio, nel 1823 il celebre orientalista tedesco August Wilhelm Schlegel pubblicò a Bonn un’edizione bilingue sanscrito-latino della Bhagavad Gita, corredata di commento
sites.google.com. La scelta del latino, lingua dotta internazionale, mirava a far circolare il testo tra gli studiosi e le élite colte: quella di Schlegel fu una versione molto accurata e influente, lodata dagli accademici dell’epoca
sites.google.com. Anche in Francia uscirono nuove traduzioni nel corso dell’Ottocento, così come in altre lingue. In Italia, la Gitagiunse un po’ più tardi: le prime versioni italiane compaiono nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’interesse orientalista toccò anche la penisola (alimentato da studiosi come Angelo De Gubernatis).
Va notato che la Bhagavad Gita fu probabilmente il testo indiano che più rapidamente ebbe un impatto fuori dall’ambito strettamente accademico. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli intellettuali trascendentalisti lessero con passione la Gita: Ralph Waldo Emerson già negli anni 1830 ne possedeva una copia, e Henry David Thoreau la studiò durante il suo esperimento a Walden Pond (1845-47). Thoreau, che usava l’edizione Wilkins del 1785 presa in prestito da Emerson, annotò di leggerne ogni mattina qualche verso come ispirazione
adventure-journal.com. Questa influenza è evidente nei loro scritti: Emerson, nel saggio The Over-Soul, richiama concetti vedantici, e Thoreau definì sé stesso “un yogin” a tratti
adventure-journal.com, segno di quanto quelle letture indiane avessero inciso sulla sua filosofia di vita. Dunque la Bhagavad Gita, grazie alle prime traduzioni di Wilkins, Parraud, Schlegel e altri, divenne nell’Ottocento un ponte spirituale tra India e Occidente, influenzando poeti, filosofi e persino movimenti letterari (come il Romanticismo europeo, che ne trasse temi e immagini esotiche)
Altre opere importanti e prime traduzioni
Oltre ai Veda, alle Upanishad e alla Bhagavad Gita, l’Ottocento vide la scoperta di altri classici indiani. I grandi poemi epici, il Ramayana e il Mahabharata, destarono presto l’interesse europeo. Già il governatore Hastings, nei suoi salotti, faceva leggere traduzioni orali di episodi epici per comprendere la cultura hindu. Tuttavia, tradurre integralmente questi mastodontici testi fu impresa di lungo periodo. Un pioniere fu l’italiano Gaspare Gorresio, formatosi a Parigi con Eugène Burnouf. Gorresio intraprese la prima edizione critica europea del Ramayana: tra il 1843 e il 1867 pubblicò a Parigi 12 volumi contenenti il testo sanscrito e la traduzione italiana dell’epopea di Vālmīki
en.wikipedia.org. In particolare, nel 1847 uscì il volume con la traduzione in italiano dei primi canti – la prima traduzione integrale di parti del Ramayana in una lingua occidentale
en.wikipedia.org. Gorresio, spinto da motivazioni filologiche e letterarie, evidenziò la bellezza poetica di questo testo e il suo lavoro venne applaudito dagli eruditi europei dell’epoca
en.wikipedia.org. Anche August Wilhelm Schlegel in Germania aveva iniziato una traduzione del Ramayana (in latino) intorno al 1838, ma la lasciò incompiuta
en.wikipedia.org. Per quanto riguarda il Mahabharata, il primo incontro europeo avvenne attraverso estratti: la Bhagavad Gita ne è un capitolo centrale, già tradotto come visto nel 1785. Parti narrative e didattiche del Mahabharata furono tradotte in francese e inglese nel tardo Ottocento, ma la prima traduzione completa (in inglese) arrivò solo negli anni 1883-1896 ad opera del bengalese Kisari Mohan Ganguli (sintomo di quanto fosse titanico affrontare i circa 100.000 versi del poema). In sintesi, nel XIX secolo l’Occidente iniziò a conoscere gradualmente anche la grande epica indiana, sebbene i risultati completi giungessero più tardi rispetto ai testi filosofici.
Da menzionare sono infine altri classici della “spiritualità indiana” in senso lato. Ad esempio, i testi del Buddhismo, pur non citati esplicitamente nella domanda, rientrano in quell’eredità spirituale del subcontinente che l’Europa scoprì in questo periodo. Il francese Eugène Burnouf fu fondamentale: nel 1844 pubblicò Introduction à l’histoire du Buddhisme indien, in cui tradusse dal sanscrito il Sutra del Loto (un importante testo mahayana) e gettò le basi degli studi buddhisti in Occidente. Poco dopo, nel 1855, il danese Viggo Fausbøll pubblicò la prima traduzione del Dhammapada (raccolta di detti buddhisti) in lingua latina. Anche la Germania ebbe il suo protagonista in questo ambito: nel 1858 Max Müller curò la prima traduzione inglese del Dhammapada. Queste imprese, parallele a quelle sui testi hindu, ampliarono la conoscenza occidentale della spiritualità originaria dell’India. Analogamente, testi filosofico-religiosi hindu come gli Yoga Sutra di Patañjali iniziarono ad essere tradotti intorno alla metà dell’Ottocento (per esempio in inglese da James Ballantyne nel 1852), rendendo noti concetti come lo yoga e il samadhi. Insomma, l’interesse orientalista abbracciò progressivamente l’intero spettro della letteratura spirituale indiana.
Traduttori pionieri e motivazioni: orientalisti, missionari e riformatori
Chi furono i protagonisti di queste prime traduzioni? Si possono distinguere varie figure con motivazioni differenti:
- Orientalisti britannici in India: Personaggi come Charles Wilkins, Sir William Jones, Henry T. Colebrooke, Horace H. Wilson erano funzionari o studiosi legati al dominio britannico in India, ma animati da genuina curiosità intellettuale verso la cultura locale. Essi fondarono società asiatiche, impararono il sanscrito con l’aiuto di pandit indiani e tradussero testi sia per comprendere meglio i popoli sotto il loro governo, sia per dimostrare al pubblico europeo il valore della civiltà indiana. Le loro motivazioni oscillavano tra l’ammirazione erudita e l’utilità coloniale: Hastings supportò la traduzione della Gita convinto che la conoscenza delle scritture hindu avrebbe facilitato un governo illuminato dell’India e mostrato paralleli con il cristianesimovedantany.org. Colebrooke tradusse i Veda in parte per “catalogare” la religione hindu e fornire ai britannici informazioni affidabili, contro le fantasie e i pregiudizi precedenti (le sue ricerche smontarono ad esempio l’idea che i Veda fossero solo miti assurdi, rivelando un ricco patrimonio di inni e rituali). Allo stesso tempo, molti di questi orientalisti erano sinceramente affascinati dalla saggezza antica che scoprivano: Wilkins paragonò la Bhagavad Gita al Vangelo di Giovanni, segno di una reverenza quasi spiritualevedantany.org, e Wilson difese l’insegnamento in lingue locali e lo studio del sanscrito in India, andando contro la linea dei colonizzatori più anglofilien.wikipedia.orgen.wikipedia.org.
- Missionari cristiani e cattolici: Diversi religiosi impararono le lingue dell’India per scopi evangelici. Già nel Seicento il gesuita italiano Roberto de’ Nobili si immerse nella cultura brahmanica a Madurai, adottando usi hindu per comprendere e meglio comunicare il messaggio cristiano (pur non lasciando traduzioni scritte dei Veda, compose trattati in sanscrito e tamil). Nel Settecento, i missionari francesi in India del cosiddetto Comptoir di Pondichéry produssero l’Ezourvedam e altri testi pseudo-vedici nel tentativo di estrapolare monoteismo e moralità compatibili col cristianesimoen.wikipedia.org. Il loro intento era mostrare agli hindu che i loro stessi testi, opportunamente “interpretati”, preannunciavano il Dio unico cristiano. Questa operazione era chiaramente strumentale e portò a interpretazioni distorte: l’Ezourvedam ad esempio metteva in bocca a saggi vedici concetti di creazione e trinità inesistenti nei Veda autentici. Nel XIX secolo, con l’apertura dell’India ai missionari protestanti (dopo il 1813), anche i pastori e missionari anglicani si interessarono alle scritture hindu. Alcuni tradussero la Bhagavad Gita e altri testi per avere strumenti di confronto dottrinale, oppure per confutare il “panteismo” e la “idolatria” indiana nei loro sermoni. Un caso interessante è l’edizione multilingue della Gita preparata nel 1846 per i missionari, che evidenzia l’uso del testo hindu come riferimento per confutazioni teologichebeezone.com. In sintesi, la motivazione missionaria era di conoscere il “nemico” religioso per meglio combatterlo o integrarlo nel messaggio cristiano.
- Studiosi e intellettuali europei (tedeschi, francesi, italiani): In Europa, fuori dal contesto coloniale, l’interesse per l’India fu alimentato dall’Illuminismo e poi dal Romanticismo. Filologi come Anquetil-Duperron, Friedrich Schlegel o Eugène Burnouf cercavano nelle lingue e nei testi orientali le origini della civiltà e magari della religiosità primigenia. Ad esempio, A.W. Schlegel, primo professore di sanscrito a Bonn, era mosso dal desiderio di allargare gli orizzonti letterari europei e di trovare i legami tra il sanscrito e le lingue classiche (fu uno dei fondatori della linguistica comparata indoeuropea). Traducendo la Bhagavad Gita in latino nel 1823, Schlegel intendeva fornire un testo affidabile per gli studiosi di tutta Europa e promuovere l’idea che l’India avesse una filosofia degna di rispettosites.google.com. Suo fratello Friedrich Schlegel, filosofo romantico, aveva già elogiato la profondità della letteratura hindu nel suo saggio Über die Sprache und Weisheit der Indier (1808), benché non traducesse direttamente testi. In Francia, Anquetil e poi Burnouf erano animati da curiosità scientifica: volevano “decifrare” le religioni orientali nei loro testi originali, convinti che queste avrebbero illuminato la comprensione della storia umana. In Italia, studiosi come Gorresio o Angelo De Gubernatis videro nell’indologia un campo per arricchire la neonata tradizione accademica italiana e allo stesso tempo per partecipare al dibattito internazionale sulle religioni e i miti. Le loro motivazioni furono dunque essenzialmente accademiche e culturali, talvolta con punte di romanticismo (la ricerca di saggezze esotiche) e talvolta con rigore positivista (studio filologico e storico delle fonti). Da non dimenticare anche gli studiosi indiani riformatori, come Rammohun Roy, che tradussero in lingue europee (soprattutto l’inglese) per motivi interni alla società indiana: Roy voleva dimostrare che i Veda e le Upanishad predicavano un monoteismo etico, e scrisse in inglese per dialogare sia coi britannici sia con i connazionali colti formati nelle scuole inglesien.wikisource.org. La sua posizione era unica: un indiano che si fa traduttore per spiegare la propria fede ai colonizzatori e al contempo riformarla.
In tutti questi casi, i traduttori pionieri vissero in un’epoca di scambi intensi tra Oriente e Occidente. Le loro produzioni vanno comprese alla luce del contesto storico: la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento videro l’Illuminismo volgere lo sguardo a oriente in cerca di sapienza primitiva (Voltaire e altri celebravano l’India antica come culla di religioni), poi le guerre napoleoniche portarono in Europa studiosi come il sanscritista britannico Alexander Hamilton – che bloccato in Francia durante le guerre insegnò sanscrito a giovani intellettuali tedeschi e francesi, gettando semi indologici. Il Romanticismo (ca. 1800-1850) trovò in India un mondo spirituale alternativo al razionalismo occidentale: i poeti e pensatori romantici esaltarono la mistica dell’India, spesso conosciuta attraverso quelle prime traduzioni. Più tardi, la seconda metà dell’Ottocento – l’era vittoriana – vide un approccio più “scientifico” e comparativo: le traduzioni di Müller e dei suoi colleghi erano accompagnate da studi linguistici, storici e antropologici sul nascere della religione, in un clima positivista. Intanto, anche in India il periodo era turbolento: il 1857 segnò la fine del dominio della Compagnia e l’inizio del Raj britannico, e contestualmente il declino dell’approccio orientalista “romantico” (accusato dai colonialisti più pragmatici di essere troppo indulgente verso la cultura indigena). Eppure, proprio mentre l’amministrazione coloniale diventava più anglocentrica, in Occidente cresceva l’interesse autonomo per l’Oriente: società teosofiche, congressi degli orientalisti, e persino il Parlamento delle Religioni del Mondo (Chicago 1893) dimostrano che la diffusione delle scritture indiane aveva ormai spinto molti occidentali a considerare seriamente il pensiero orientale.
Impatto in Occidente delle prime traduzioni
Le prime traduzioni dei classici indiani ebbero un impatto profondo e duraturo sul pensiero occidentale. Inizialmente furono una curiosità erudita: alla fine del Settecento e primi Ottocento, solo piccoli circoli di studiosi e filosofi leggevano testi come la Bhagavad Gita o le Upanishad, spesso attraverso il filtro di traduzioni latine o commenti. Ma già verso la metà dell’Ottocento il loro influsso iniziò ad allargarsi.
In ambito filosofico e religioso, l’effetto fu dirompente. Le Upanishad, portate all’attenzione dall’Oupnek’hat di Anquetil-Duperron, ispirarono Arthur Schopenhauer a sviluppare parallelismi con la propria filosofia. Schopenhauer vi trovò la conferma di idee a lui care – l’unità metafisica oltre il velo dei fenomeni, la svalutazione del mondo materiale – e citazioni delle Upanishad compaiono nelle sue opere principali
en.wikipedia.org. Egli fu uno dei primi a celebrare una sapienza non occidentale come pari alla tradizione europea, aprendo la strada alla legittimazione del pensiero orientale nello studio comparato della filosofia. Più tardi, anche altri pensatori (es. in Russia Tolstoj, in America Emerson e Thoreau, in Italia pensatori spiritualisti come Angelo De Gubernatis o Giovanni Pascoli nelle sue poesie) subirono il fascino di questi testi. La Bhagavad Gita fornì alla filosofia occidentale temi nuovi: il concetto di dharma (dovere etico personale), la via della non-attaccamento nelle azioni (Karma Yoga) che impressionò Thoreau, la figura di Krishna come Dio incarnato che parla all’uomo smarrito. Questi concetti cominciarono a penetrare il dibattito morale e religioso: ad esempio, negli ambienti teosofici e rosacrociani tardo-ottocenteschi la Gita divenne una sorta di testo sacro universalista.
In letteratura e arte, l’Oriente indiano entrò nell’immaginario per nuove vie. I poeti romantici tedeschi e inglesi citarono spesso immagini indiane (vedi Goethe che allude al Shakuntala di Kālidāsa, o Byron e Shelley che evocano Bramini e fakiri). La disponibilità della Bhagavad Gita in traduzione tedesca nel 1802 influenzò la letteratura romantica, fornendo un modello di poema filosofico esotico
rarebooksocietyofindia.org. In Francia, gli orientalisti come Edgar Quinet o Victor Hugo vennero influenzati dal misticismo indiano; in Italia, Giosuè Carducci lesse con interesse studi indiani e Gabriele D’Annunzio più tardi citarà figure di dèi hindu nelle sue opere. Perfino un pittore visionario come William Blake, come già accennato, trovò ispirazione nella scena di Wilkins e dei pandit che traducono la Gita, immortalando quell’incontro tra saggi d’Oriente e d’Occidente nel suo quadro The Brahmins (1809)
In ambito religioso, la diffusione di queste traduzioni fece nascere un dialogo interreligioso embrionale. Alcuni intellettuali cristiani lessero la Gita o le Upanishad cercando paralleli con il Vangelo, altri invece le videro come una minaccia perché offrivano una spiritualità compiuta al di fuori della Bibbia. Questo stimolò studi comparativi: ad esempio, a metà Ottocento il francese Ernest Renan e altri iniziarono a paragonare le religioni storiche, ponendo induismo e buddhismo sullo stesso piano del giudaismo e cristianesimo in termini di dignità storico-filosofica. La presenza in traduzione di testi come il Dhammapada o il Lalita Vistara (vita leggendaria del Buddha, tradotta in francese nel 1848 da Philippe-Édouard Foucaux) fece sì che per la prima volta il pubblico occidentale potesse confrontarsi direttamente con dottrine quali la reincarnazione, il nirvana, il karma, fino ad allora conosciute solo per sentito dire.
Un aspetto significativo dell’impatto fu anche la nascita dell’indologia come disciplina accademica. Le traduzioni furono il materiale di base su cui si fondarono cattedre universitarie di sanscrito (la prima a Oxford nel 1832 con H.H. Wilson, poi Bonn con A.W. Schlegel, Parigi con Eugène Burnouf, ecc.)
en.wikipedia.org. Esse alimentarono riviste specialistiche (come Asiatic Researches a Calcutta, Journal Asiatique a Parigi, Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft in Germania) dove studiosi occidentali e indiani discutevano interpretazioni dei testi sacri. Così, al di là dell’influenza sulle idee, queste prime traduzioni posero le basi istituzionali per uno scambio culturale continuo: a fine Ottocento, leggere le Upanishad o la Gita in traduzione era divenuto quasi comune tra gli intellettuali europei, e all’alba del XX secolo personaggi come Vivekananda e altri maestri indiani trovarono in Occidente un pubblico già preparato ad accoglierli – frutto di un secolo di traduzioni e studi.
Controversie e fraintendimenti nelle prime traduzioni
Le prime traduzioni occidentali dei testi spirituali indiani non furono esenti da errori, interpretazioni tendenziose e vere e proprie controversie. Abbiamo già citato il caso clamoroso dell’Ezourvedam, il falso Veda dei missionari francesi, che per decenni ingannò anche menti brillanti come Voltaire
en.wikipedia.org. Questa vicenda mise in luce il rischio di prendere per genuini testi non autenticati: un avvertimento metodologico per gli studiosi successivi.
Un altro genere di fraintendimento nacque dalle traduzioni indirette. L’Oupnek’hat di Anquetil-Duperron, tradotto dal persiano, pur essendo basato su materiali autentici, soffriva di deviazioni dal senso originale. I traduttori persiani al servizio di Dārā Shikōh infatti, come notò il grande indologo tedesco Paul Deussen, avevano talvolta “alterato il significato” delle Upanishad per adattarle alla terminologia islamica
en.wikipedia.org. Ad esempio, concetti come Brahman vennero equiparati al Dio unico coranico, introducendo sfumature monoteistiche estranee ad alcune Upanishad. Anquetil, dal canto suo, rese il persiano in un latino letterale, parola per parola, generando passaggi oscuri e macchinosi
en.wikisource.org. Ciò portò alcuni a considerare le Upanishad confuse o inferiori, fino a che Schopenhauer non dimostrò che era la traduzione ad essere maldestra, non il contenuto
en.wikisource.org. Fortunatamente, con l’arrivo di traduzioni dirette dal sanscrito (come quelle di Müller), molte di queste imprecisioni vennero corrette; ma l’episodio insegna come la catena linguistica persiano-latino poté introdurre errori interpretativi.
Anche bias culturali e religiosi influenzarono le prime traduzioni. I traduttori missionari tendevano a leggere i testi hindu in chiave polemica: alcuni versi della Bhagavad Gita vennero tradotti con termini volutamente dispregiativi per sottolineare l’“idolatria” (ad esempio rendendo deva con “idolo” invece che “dio”). Al contrario, traduttori simpatetici come Wilkins o Gorresio a volte edulcorarono elementi che potevano urtare la sensibilità occidentale: Wilkins, ad esempio, nel tradurre i nomi degli dèi o concetti come la metempsicosi cercò equivalenti comprensibili al lettore cristiano (si rivolse a concetti noti, rischiando talvolta di snaturare l’originale). Hastings nella sua prefazione affermava di vedere nella Gita una conferma delle dottrine cristiane
vedantany.org, un evidente caso di eisegesi (proiezione di idee proprie sul testo). Questo portò alcuni critici a dire che gli orientalisti leggevano l’India con “lenti bibliche”, trovandovi ciò che volevano trovare.
Vi furono poi controversie cronologiche e di autenticità. All’inizio, gli europei faticavano a datare questi testi: alcuni, come William Jones, inizialmente credettero che il Bhagavata Purana (un testo devozionale medievale su Krishna) fosse antichissimo e fonte della Gita, mentre oggi sappiamo che la Gita (circa sec. II a.C.) precede molti Purana. Di converso, altri scettici (come lo storico inglese James Mill) liquidarono i testi sanscriti come recenti fantasie senza valore. Ci fu dunque uno scontro tra orientalisti e anglicisti: i primi, come Colebrooke e Wilson, sostenevano l’alta antichità e il merito letterario dei Veda e della Gita, i secondi (per es. Mill nel 1817) li consideravano farneticazioni puerili di poco posteriori a Cristo. Col tempo, la ricerca filologica diede ragione agli orientalisti sulla maggior parte dei punti (con una cronologia corretta dei Veda attorno al II millennio a.C., Upanishad entro il I millennio a.C., Gita nel I-II sec. a.C.). Ma nelle prime fasi questa controversia generò confusione e scetticismo in parte del pubblico occidentale.
Infine, bisogna riconoscere che alcune traduzioni early erano più adattamenti che versioni fedeli. Ad esempio, in alcune traduzioni francesi ottocentesche del Mahabharata, i traduttori tagliarono liberamente episodi o ne riscrissero sezioni in prosa elegante, trasformando il testo originale per adeguarlo al gusto europeo. Ciò era in linea con una pratica dell’epoca (basti pensare alle traduzioni “abbellite” di Mille e una notte da parte di Antoine Galland un secolo prima). Questo approccio, se da un lato rese i testi più fruibili al largo pubblico, dall’altro fissò a volte malintesi: per anni, l’idea occidentale del Karma o della meditazione yoga fu filtrata dalla lente romantica ed esotizzante dei traduttori, fino a che traduzioni più letterali nel Novecento riportarono l’attenzione sul significato originario.
In conclusione, le prime traduzioni occidentali dei classici indiani furono opere pionieristiche, talora ingenue o parziali, ma comunque fondamentali. Esse aprirono uno spazio di dialogo e confronto che prima era impensabile, gettando ponti tra mondi lontani. Le controversie e gli errori iniziali furono in parte superati con studi più approfonditi e con la collaborazione di studiosi indiani e occidentali nelle generazioni successive.
Conclusione
La scoperta della letteratura spirituale indiana attraverso le prime traduzioni fu un evento cardine nella storia intellettuale moderna. In pochi decenni, testi venerati per millenni in Asia – i Veda cantati dagli Ṛṣi, le Upanishad meditate dagli asceti, il canto del Bhagavad Gita sul campo di Kurukshetra, le epiche storie di Rāma e dei Pāṇḍava – trovarono nuove voci in latino, in inglese, in francese, in tedesco, in italiano. Traduttori audaci come Wilkins, Anquetil-Duperron, Schlegel, Gorresio e molti altri fecero da mediatori tra civiltà, animati da motivazioni che spaziavano dalla fede alla scienza. Il contesto coloniale fornì da un lato l’occasione materiale (il contatto diretto con l’India), dall’altro inserì queste traduzioni in dinamiche di potere e di rappresentazione culturale: non erano mai atti neutri, ma portavano con sé i valori e i preconcetti dei loro autori.
Nonostante ciò, l’effetto cumulativo fu quello di arricchire enormemente la cultura occidentale. Idee come il brahman impersonale, la trasmigrazione delle anime, la yoga come disciplina dello spirito, il dharma come dovere sacro – idee che oggi ci paiono familiari – penetrarono allora per la prima volta il vocabolario e l’immaginario europeo. Le prime traduzioni, anche quando imperfette, suscitarono meraviglia e stimolarono importanti riflessioni: misero in discussione il monopòlio abramitico sulla saggezza religiosa mostrando un altro sistema complesso e antichissimo; ispirarono riformatori a chiedersi se tutte le religioni avessero un fondo comune; offrirono a filosofi e poeti nuove metafore e nuove prospettive sulla vita, la morte e l’assoluto.
Col senno di poi, possiamo dire che senza quelle prime versioni occidentali dei classici indiani il successivo dialogo spirituale tra Oriente e Occidente non sarebbe stato possibile. Esse prepararono il terreno per l’arrivo di maestri indiani in Occidente e per la nascita di movimenti sincretistici (come la Società Teosofica o lo stesso interesse popolare per lo yoga nel XX secolo). Certo, i primi traduttori commisero errori e proiettarono talvolta le proprie idee sui testi – ma ogni traduzione è anche un’interpretazione, e queste interpretazioni iniziali fecero evolvere la comprensione reciproca. Oggi, grazie a oltre due secoli di studi, disponiamo di traduzioni molto accurate e contestualizzate di Veda, Upanishad e Bhagavad Gita. Tuttavia, è importante ricordare e onorare quei primi sforzi: furono atti di ponte fra mondi, chiavi che aprirono le porte dell’Oriente spirituale alla mente occidentale.
Fonti:
- Max F. Müller, Sacred Books of the East, vol. 1 – Upanishads, Introduzione (1879)en.wikisource.orgen.wikisource.orgen.wikisource.org.
- Wikipedia – Upanishads (sezione sulle traduzioni)en.wikipedia.orgen.wikipedia.org.
- Mishka Sinha, “Corrigibility, Allegory, Universality: A History of the Gita’s Transnational Reception, 1785–1945”, in Modern Intellectual History 7/2 (2010)beezone.combeezone.com.
- Vedanta Society of NY, “The Bhagavad Gita Casts Its Spell on the West” (articolo storico)vedantany.orgvedantany.org.
- Rare Book Society of India, nota alla traduzione francese della Bhagavad Gita (1787)rarebooksocietyofindia.org.
- Wikipedia – Ezourvedamen.wikipedia.orgen.wikipedia.org.
- Adventure Journal, “Henry David Thoreau: America’s First Yogi?” (2024)adventure-journal.com.
- Wikipedia – H. H. Wilsonen.wikipedia.org; Gaspare Gorresioen.wikipedia.org.